giovedì 14 marzo 2013

Recensione: I ponti di Bergen

Titolo: I ponti di Bergen
Autore: Jan Guillou
Editore: Corbaccio
Collana: I narratori
Pagine:  300
Prezzo: 12, 90
 
Descrizione:
Quando il padre annega nel Mare del Nord, Lauritz, Oscare e Sverre, tre fratelli, sono costretti a lasciare il loro piccolo villaggio marino per cercare fortuna in città. Iniziano come garzoni da un cordaio, ma il loro talento innato e una serie di fortunate coincidenze li porteranno a servizio del ricco Hensikt, dove verranno educati e diventeranno ingegneri civili di ferrovie e ponti. Potrebbero finalmente tornare in Norvegia, a lavorare ad un progetto ambizioso e di grande prestigio, ma a questo punto è l’amore a metterci lo zampino.
 
L'autore:
 
Svedese di origini francesi, Jan Guillou è uno degli autori più letti e seguiti in patria. Giornalista affermato, è stato arrestato nel 1973 con l’accusa di spionaggio, dopo  aver scritto un articolo sui servizi segreti svedesi. Da quell’episodio piuttosto avventuroso, ebbe l’idea di scrivere romanzi. Nel 1998 Guillou ha scritto Il templare , primo suo volume tradotto in italiano e primo libro della Trilogia delle Crociate, una serie da 260.000 copie vendute in Italia. Con I ponti di Bergen Guillou cambia luogo e spazio rispetto agli intrighi della Terrasanta del Dodicesimo secolo, scrivendo una saga familiare in cui passioni, amori e storie di tre fratelli si intrecciano sullo sfondo del movimentato Ventesimo Secolo.
 
La mia recensione: 
Oscar, Sverre e Lauritz sono tre ragazzini figli di un pescatore norvegese. Rimasti orfani di padre in tenerissima età sono costretti ad andare a lavorare come apprendisti cordai per garantire la sopravvivenza della famiglia. Sorpresi a rubare materiale di scarto per costruire una nave vichinga in scala, a breve distanza dal loro ingaggio, i tre fratelli vengono però licenziati in tronco e rispediti a casa. Per i Lauritzen si preannunciano tempi bui fino a che non giunge l’inattesa visita di Christian Cambell Andersen, primogenito del proprietario della corderia. Il giovane imprenditore stupito dall’abilità straordinaria mostrata dai bambini nella costruzione del modellino incriminato non accetta l’idea che il loro talento possa andare sprecato. La Norvegia ha bisogno di validi ingegneri perché si possa realizzare l’ambizioso progetto, cullato dal governo, della costruzione di una ferrovia e i tre orfanelli hanno le giuste doti per diventare i migliori professionisti sulla piazza. Si impegna così in prima persona affinché ottengano dei finanziamenti per proseguire gli studi.
Conseguita la laurea, Oscar, Sverre e Lauritz vengono chiamati a ripagare il loro debito impegnandosi nella progettazione della rete ferroviaria che collegherà Kristiania a Bergen.
Ma uno solo dei tre fratelli risponde all’appello tenendo fede agli accordi.
Straziato da una delusione d’amore, Oscar decide di andare a lavorare come ingegnere nell’Africa tedesca orientale.
Sverre, che crescendo ha scoperto di essere omosessuale, fugge in Inghilterra, paese più tollerante.
Rimane Lauritz. In realtà neanche lui ha una gran voglia di seguire il cantiere sperduto nelle montagne, soprattutto perché ciò significherà allontanarsi dalla sua amata Ingeborg, ma il suo senso dell’onore gli impedisce di venir meno alla parola data.
Da questo punto in poi, il romanzo si evolve seguendo alternativamente le vicende che hanno per protagonisti Oscar e Lauritz mentre le tracce di Sverre si perdono definitivamente. Dopo le rispettive partenze i due fratelli non hanno più contatti fra loro per cui le due storie procedono in parallelo tanto che potrebbero essere lette anche indipendentemente l’una dall’altra.
Entrambi sono impegnati nella costruzione di una ferrovia ma in contesti molto diversi tra loro.
Lauritz fa i conti con l’isolamento forzato di un cantiere arroccato sui monti e con i disagi provocati dalla rigidità tipica dell’inverno norvegese. I colleghi sono le uniche persone con cui ha la possibilità di interagire e a lui è toccata pure la sfortuna di un assistente poco loquace. Un libro di Shakespeare e il ricordo della sua amata sono tutto quanto può alleviare il sacrificio della sua permanenza lì. Il desiderio di ricongiungersi con Ingeborg e di poterla finalmente sposare è la vera molla che gli consente di tenere duro. Il padre della ragazza infatti, essendo un barone, è determinato a osteggiare la loro unione fino a che Lauritz non avrà raggiunto la sicurezza economica.
Oscar vive un’esperienza decisamente più avventurosa. Il suo cantiere subisce di continuo attacchi di leoni famelici mentre la tribù dei guerrieri cannibali kinandi si oppone al processo di colonizzazione e tenta di osteggiare i lavori in corso assimilando la ferrovia al terribile serpente bianco che spazzerà via libertà e tradizioni. Il giovane ingegnere dunque, all’occorrenza, dovrà vestire i panni del cacciatore  o trasformarsi in una sorta di soldato allenando i suoi occhi ad assistere a scene cruente. Anche nel suo caso sarà l’amore − un amore nuovo − a consentirgli di sopravvivere.
Attraverso i vissuti dei due protagonisti, Jan Guillou ci fornisce uno spaccato puntuale e realistico del periodo storico di riferimento. Ambientato agli inizi del ‘900, il romanzo si configura come un vivido affresco in grado di porre in risalto le peculiarità di un secolo che si apre sotto la spinta di grandi cambiamenti. La corsa al colonialismo, la realizzazione di grandi imprese ingegneristiche tese a facilitare la comunicazione ma anche, di contro, l’austerità di un costume ancora profondamente influenzato dalla rigida cultura vittoriana, sono tutti elementi che trovano la loro giusta collocazione nell’architettura de “I ponti di Bergen”.
La componente storica, dal mio punto di vista, rappresenta il maggior punto di forza di questo libro che, facendoci compiere un salto temporale, ci offre un ricco bagaglio di informazioni consentendoci di  respirare nel contempo atmosfere d’epoca che sicuramente avranno il potere di affascinare gli appassionati di questo particolare periodo storico.
Questo pregio tuttavia risulta controbilanciato da un ritmo narrativo lento, a tratti ripetitivo, al punto di far sì che la lettura proceda con una certa indolenza. Nonostante la trama sia avventurosa, lo stile è piatto, fortemente descrittivo ma poco coinvolgente sul piano emotivo. Soprattutto i capitoli dedicati a Lauritz si connotano per la loro marcata staticità; leggendoli si percepisce con estremo realismo il freddo dell’inverno, si ha la netta sensazione di visualizzare le immense distese di neve, di avvertire la fatica di un lavoro condotto in una situazione di disagio ma, con altrettanta chiarezza si assimila il senso di noia che, pur corrispondendo allo stato d’animo del personaggio, risulta sgradito al lettore.
Personalmente ho recepito una certa freddezza espositiva che mi ha impedito di entrare davvero nel romanzo. Ho provato curiosità per la storia e per le sorti dei due fratelli ma non sono riuscita ad affezionarmi a loro o a condividere le loro emozioni poiché l’autore racconta più che mostrare.
L’assenza di Sverre, il terzo fratello che sembra preannunciarsi come protagonista insieme agli altri, non passa inosservata fornendo la spiacevole sensazione di un filo narrativo rimasto a penzolare nel vuoto, tuttavia non è possibile stabilire se si tratti effettivamente di una pecca. Giunti all’ultima pagina, infatti, si scopre che questo è solo il capitolo introduttivo di una saga in più volumi. La storia si interrompe bruscamente, lasciando quasi tutto in sospeso, proprio quando inizia a farsi più avvincente, si rimane perciò con  il legittimo dubbio che le lacune evidenziate possano essere colmate in futuro. Di certo non si può negare che un finale così lascia l’amaro in bocca.







 






 
 

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